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AI Imagery. Curiosità e Intelligenza Artificiale in fotografia

In una serata di giugno 2025, Roberto Srelz (fotografo iscritto a Tau Visual, giornalista) prova a rispondere alle domande di Calogero Chinnici assieme a Nino Gaudenzi, Andrea Mazzelle, Laura Perrotta. Roberto ha lavorato per Wartsila Corporation, per Hewlett-Packard, per DXC; imprenditore, oggi insegna reti dati e sicurezza informatica in Accademia Nautica dell’Adriatico ITS Academy ed è in stretto contatto con due startup triestine che si occupano di IA in campo rispettivamente medicale e di integrazione in sistemi di supporto alla decisione. L’impresa della quale è amministratore, mediaimmagine, ha ottenuto inoltre finanziamento da Regione Veneto e Regione Friuli-Venezia Giulia per due diversi progetti che riguardano l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale a funzioni creative nel campo della comunicazione pubblicitaria e dell’attività redazionale di un quotidiano online, trieste.news, del quale è fondatore.

L’Intelligenza Artificiale è uno strumento creativo o una minaccia per l’artista? Una AI, in Italia IA o Intelligenza Artificiale, è un trasformatore (ChatGPT: «Generative Pre-trained Transformer»); non inventa nulla. Si tratta di sistemi informatici basati su reti neurali e modelli di linguaggio evoluti (LLM) che lavorano inghiottendo grandi quantità di dati già etichettati e preselezionati (definiti elementi di apprendimento). Lo fanno analizzandoli secondo algoritmi (ovvero insiemi di regole, ad esempio logiche e matematiche, di diverso tipo, da seguire nell’esecuzione di calcoli o per mettere in atto processi di risoluzione di problemi), per identificare correlazioni, ripetizioni o modelli che utilizza per predirre situazioni o stati futuri. Le IA vengono programmate con linguaggi specifici seguendo tre filoni cognitivi: apprendimento ragionamento, autocorrezione. L’apprendimento prevede una fase di acquisizione dei dati e creazione delle regole li trasformano in informazioni utilizzabili; il ragionamento fa sì che all’IA vengano presentati gli algorimi corretti per risolvere proprio il tipo di situazione che si presenta in un determinato contesto, e l’autocorrezione permette all’IA di migliorarsi e far sì che il risultato sia sempre più perfezionato.

Le IA non sono una novità; se ne parlava nei romanzi di William Gibson già a metà degli anni Ottanta, e ben prima. Il punto è che oggi, a quasi cinquant’anni dai romanzi e grazie allo sviluppo della capacità di calcolo dei computer e soprattutto di Internet nel momento in cui lo intendiamo come Cloud, cominciano per davvero a funzionare. Una IA che simula una chat WhatsApp viene istruita con esempi di vere chat fra persone, e può imparare a produrre chat realistiche con altre persone; una IA per il riconoscimento di un’immagine può identificare e descrivere gli oggetti contenuti in una foto confrontando milioni di foto simili. Posso usare l’IA per cantare, parlare, ballare; o creare una copia alterata di una foto. Le IA più usate oggi sono ChatGPT per analizzare dati e comporre, Midjourney per creare immagini, Character AI per chiacchierare, Gemini per cercare su Google, Claude per programmare e ancora una volta per chiacchierare. Ha fatto molto parlare di sé la cinese Deepseek in quanto i suoi creatori affermano consumi molta meno corrente elettrica delle sue concorrenti e questo è molto importante da un punto di vista economico. Se voglio un sistema aperto che mi permetta di generare qualsiasi immagine mi venga in mente, scelgo Stable Diffusion; se voglio sostituire un viso ad un’altro anche in alta definizione, provo Deepswap. Sono strumenti che sono stati contestati da un punto di vista etico (fake news, pornografia). Le immagini IA (o «AI Image») sono immagini create utilizzando un’intelligenza artificiale: questo tipo di immagine sta diventando sempre più popolare, è quasi sempre unica (capiremo poi meglio cosa significhi “unica” nel digitale) e, a meno che non si voglia il contrario, realistica o meglio artistica.

Perché diciamo «artistica»? definizione di arte (Oxford): 1. «espressione o applicazione dell’immaginazione e creatività umana, tipicamente in forma visuale come la scultura o la pittura, attraverso la produzione di opere apprezzate principalmente per la loro bellezza e potere emotivo» 2. «le varie ramificazioni dell’attività creativa, come la pittura, la musica, la letteratura, la danza» Una «AI Image» si ottiene attraverso prompt engineering ovvero descrizione testuale (o verbale) del risultato che voglio ottenere: c’è quindi sempre un atto immaginativo e creativo, che si traduce attraverso un’attività intellettuale fatta da chi richiede allo strumento IA di elaborare il suo pensiero. Con questo, direi che ci siamo risposti. L’IA è uno strumento creativo.

La bellezza può essere generata da un’algoritmo? 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144 … ovvero una infinita successione di numeri interi in cui ogni numero è la somma dei due precenti, a partire da 0 e 1. Nel Sesto secolo avanti Cristo, Pitagora (più propriamente la scuola pitagorica, che operava a Crotone e nell’Italia meridionale) studiò il concetto geometrico di «divina proporzione». Più tardi Euclide, matematico greco, fornì una definizione precisa: «la divisione di una retta in modo tale che il rapporto tra la lunghezza totale e la parte più lunga sia uguale al rapporto tra la parte più lunga e la parte più corta». La sezione aurea. Leonardo Pisano, che conosciamo come Fibonacci, un italiano del Dodicesimo secolo, unì la matematica dei greci a quella dell’Islam; studiando gli animali, gli venne in mente di sommare, per ottenere un certo numero, sempre i due numeri precedenti tralasciando solo l’assenza (lo zero) e il primo numero del mondo (1). Successivamente, Johannes Kepler, nato nel 1571, che conosciamo come Keplero e che studiò l’universo, individuò un rapporto fra l’antico Phi (Φ), o numero di Fidia 1,618 (approssimato; Fidia era uno sculture e architetto in Atene), e due numeri consecutivi della sequenza di Fibonacci. Alcune galassie a spirale mostrano una struttura che ricorda la spirale di Fibonacci; lo fanno anche le ramificazioni degli alberi. E molte altre cose attorno a noi. La sezione aurea è un rapporto matematico da sempre considerato ideale per l’armonia e la bellezza, e si trova in moltissime forme naturali. Per motivi che non comprendiamo del tutto, e molto probabilmente perché lo scopo primario della nostra esistenza è il riprodurci (come fa qualsiasi altra specie vivente), il nostro cervello riconosce come «bello» (quindi attraente: vediamo attratti da esso e non sappiamo perché) qualcosa che risponde alle regole della sezione aurea: lo cerca, vuole imitarlo. Un uomo e una donna «belli» sono una donna e un uomo proporzionati secondo la sezione aurea («homo bene figuratus»); c’è chi dice si tratti semplicemente di un canone e certamente posso “rompere” la sezione aurea e comporre l’immagine in altri modi, liberamente – nondimeno, la sezione aurea ci attrae sempre. Ben prima di Cristo, quindi, abbiamo capito che la natura crea bellezza attraverso ripetizioni matematiche. Gli artisti hanno solo imparato a… copiare dalla natura. Molti l’hanno fatto per istinto e senza saperlo. «Bello», quindi: «capace di provocare un’attrazione fisica o spirituale fine a sé stessa, in quanto degno di essere ammirato e contemplato». Se la natura, in un modo che non comprendiamo ancora, crea cose belle (data la definizione di bello: «cose fini a sé stesse») attraverso ripetizioni matematiche (questo è il modo, da noi scoperto ed elaborato, con cui riusciamo a spiegare la natura e a comprenderla), perché mai la bellezza non potrebbe essere generata da un algoritmo e quindi dall’IA?
Certo che può esserlo. Se qualcosa di generato da una IA ci piace in modo fine a sé stesso, è bello. Direi che ci siamo risposti: la bellezza può essere generata da un algoritmo, e non è sempre vero che “è bello ciò che piace”, dietro c’è qualcosa d’altro, è questo qualcosa d’altro che ce lo fa piacere e non capiamo del tutto bene perché.

L’IA può sostituire il fotografo? «Fotografia»: 1. «processo fotochimico per mezzo del quale l’immagine di un qualsiasi soggetto, ottenuta con la camera oscura, viene fissata e resa permanente su un supporto di materiale sensibile ai raggi luminosi». 2. «L’immagine ottenuta mediante tale procedimento». La fotografia digitale è considerata tale (ovvero fotografia) in quanto il processo elettronico segue lo stesso principio fondamentale della fotografia chimica, che potrebbe anche essere, se lo si volesse, permanente con un dorso digitale realizzato allo scopo.

La luce, oltre a essere la cosa più veloce dell’universo tanto da essere diventata una costante («C»: 299.792,458 metri al secondo), è una forma di energia molto complessa che ha sia comportamento ondulatorio che corpuscolare (i fotoni sono letteralmente dei piccoli proiettili). Energia = massa moltiplicata per C al quadrato. (Einstein) Fra scrittura di informazioni fatta su un dorso digitale sensibile o su una superficie chimica sensibile, non c’è differenza: è la luce a provocare un cambiamento che viene, in due modi diversi, registrato. La polemica fra fotografia analogica e fotografia digitale non ha alcun senso in quanto è la luce, grazie alle sue proprietà particolari, a scrivere qualcosa: sulla pellicola lo fa più attraverso le sue proprietà corpuscolari, sul dorso elettronico più attraverso quelle elettromagnetiche, ma alla fine non si sa bene con certezza (manca il mattoncino che collega la fisica classica a quella quantistica), le due non sono scindibili, c’è l’«entanglement» attraverso il quale due o più particelle diventano interconnesse e uno stato non può essere descritto indipendentemente dall’altro, eccetera eccetera. Se parliamo di elaborazione, pesante o leggera che sia, di un’immagine con uso di software, ad esempio Photoshop, parliamo di qualcosa di diverso. Ma per ora, qui, parliamo di fotografia.
E non dimentichiamoci di Niels Bohr, perché «Dio non gioca ai dadi», ma «bisogna smettere di dire a Dio cosa deve fare con i suoi dadi». Molti effetti elettronici sono effetti quantistici.
La «fotografia analogica»… non è analogica in realtà, meglio sarebbe chiamarla «fotografia chimica». L’eventuale «fotografia analogica» userebbe solamente un tipo di supporto elettronico non digitale, ad esempio un tubo eletronico da telecamera Vidicon. Non sarebbe una foto su pellicola. Digitale: «tutto ciò che è rappresentato tramite numeri discreti»; numero discreto: numero che può essere contato o misurato in unità intere.
Diciamo di solito «fotografia analogica» perché produce immagini che esprimono un «numero infinito» di variabili fra due valori dati: la fotografia digitale, e Photoshop, non possono farlo, basandosi su «zero» e «uno». Le variabili di una macchina digitale o di Photoshop possono restituire una gamma incredibilmente grande di risposte, ma mai infinita.

By the way e lungo la via, la pellicola chimica non consente un numero di variabili infinito nel processo che va dall’esposizione alla luce alla stampa: è limitato dal processo chimico che rende i grani nell’emulsione in grado di reagire alla luce e di rappresentare l’immagine. Tuttavia, questa variabilità è più grande di quella che abbiamo a disposizione sulla nostra macchinetta digitale e su Photoshop e non è una sequenza di 0 e di 1 ma una variabile continua. C’è una grande differenza, proprio da un punto di vista matematico e statistico. La fotografia su pellicola, quindi, è migliore di quella digitale – con vari presupposti e varie necessità da considerare. Innegabilmente però essa è unica mentre quella digitale non lo è: un sistema informatico (una macchina digitale è un sistema informatico) può restituirmi due foto esattamente identiche rispondendo a istruzioni, una pellicola no. L’IA non fotografa (per ora) nulla; un’immagine IA viene prodotta attraverso campionamento di altre immagini e prompt engineering, ovvero attività intelletuale di descrizione. È come se Michelangelo scolpisse il suo David parlando.
Il fotografo… fotografa. Inquadra e preme un bottone, così scegliendo di rappresentare qualcosa: «è morto e sta per morire». Se non fa questo, se non compie questo gesto pazzo o savio, non è un fotografo (Roland Barthes, «Camera Chiara»). Se usa l’IA per produrre creazioni artistiche potremmo meglio chiamarlo artista digitale. Se un giorno l’IA potrà muoversi autonomamente in uno spazio e decidere in autonomia cosa inquadrare, sarà un fotografo. L’IA può sostituire il fotografo? No.Per ora siamo distanti. Direi che ci siamo risposti.

Va quasi tutto bene: dal superare il test di Turing siamo lontani? «…Il solo modo per cui si potrebbe essere sicuri che una macchina pensa è quello di essere la macchina stessa e sentire se si stesse pensando. Allo stesso modo, la sola via per sapere che un uomo pensa è quello di essere quell’uomo in particolare. Probabilmente A crederà “A pensa, mentre B no”, mentre per B è l’esatto opposto “B pensa, ma A no”. Invece di discutere in continuazione su questo punto, è normale attenersi alla educata convenzione che ognuno pensi.» (Alan Turing)

I giovani stanno imparando a usare l’IA in modo critico? Come OpenAI (ChatGPT) stessa dice: “Essendo un modello di linguaggio AI, non ho né credenze né visioni soggettive personali. Ciononostante, potrei produrre delle risposte influenzate da visioni soggettive, se i dati che uso contengono pregiudizi o se il modo in cui viene formulata la domanda le contiene. È importante riconoscere che le visioni soggettive possono essere non intenzionali e che è cruciale trovarle e correggerle sia nei dati che nel linguaggio per prevenirne il perpetuarsi”.

L’intelligenza artificiale sbaglia. E ce lo dice con chiarezza. I giovani, già nati in questo mondo, lo sanno bene. I «Boomer» e quelli di subito dopo molto meno, tant’è che gli utilizzatori di Facebook hanno cinquant’anni, e stanno aumentando molto quelli Over 65 (eppure continuano a pensare che i contenuti che pubblicano, ad esempio le loro foto, siano visti da tutto il mondo e che stare su Facebook serva a socializzare, visto che si chiama «Social»). Il tema può invece essere: l’IA sbaglierà sempre? Saremo consapevoli, fra molto poco tempo, di star parlando a una IA oppure no? Non ho risposte. Rileggiamo Turing.

Se ci affidassimo solo all’IA, non faremmo altro che basare la nostra produzione di immagini, e fotografie, sulla massa di quelle passate. Come ha scritto Riccardo Zezza, editorialista del Sole 24 Ore, che di IA (in particolare, di ChatGPT: l’IA più nota), viste le evidenti implicazioni economiche, si è occupato molto: «Come in una famiglia, anche se molto grande, i cui membri cominciano ad accoppiarsi solo tra di loro». È quello che fanno le ultime fotocamere digitali. Una fotocamera con IA lavorerà inghiottendo un numero enorme di foto che sono un ritratto (o che interpreta come tali) e le descrizioni che accompagnano ciascuna foto; l’algoritmo di Deep Learning poi genererà una nuova immagine che corrisponderà il più possibile alla descrizione. Non sarà una copia perfetta della faccia che avremo in mente, ma sarà una copia molto simile. Una copia. Della copia. Della copia. Della copia. Della copia. Della copia… Una IA non ha nemmeno la pretesa della neutralità: sa già di essere perfetta.

Questo progresso non si arresterà: vedremo applicazioni sempre più avanzate, con ritocco ed editing sempre più automatizzato. I «fotografi» potranno così «spendere meno tempo» (anzi, tendenzialmente: zero tempo e testa) nella post produzione – farà già tutto la macchina o il software – e avranno più tempo per scattare, realizzando così una quantità enorme di … foto tutte uguali; o per essere meno cinici, quasi uguali. Copie. Delle copie. Delle copie. Delle copie… Attraverso l’IA, alimenteremo, oggi, software che domani potrà essere usato per la realtà virtuale o realtà aumentata, in modo da poter condividere, se vogliamo attraverso Internet, esperienze immersive e tremendamente reali: più reali della realtà stessa;
Il fotografo avrà più tempo da dedicare allo sviluppo della propria creatività, partendo da immagini già perfette? «Non c’è dubbio». Ad esempio potremo automatizzare tutte le operazioni «inutili» come la valutazione della profondità di campo e la messa a fuoco, dato che la nostra fotocamera Mirrorless con IA sarà in grado di scattare foto (qualche migliaio alla volta) che fino a qualche anno fa sarebbero state impossibili da scattare…
Per forza. Le inventerà lei. Migliaia di foto perfette, a raffiche di 500 alla volta. Foto sbagliate rese giuste. A meno che la nostra scelta, anziché quella di prendere l’ultimo gioiello di macchina IA o l’ultima versione di «transformer», non sia quella di riprendere a usare un organo molto importante del nostro corpo, il cervello, che mantiene una caratteristica fondamentale: è unico, irripetibile, in ciascuno di noi.
La foto IA quindi sicuramente non è una foto. Niente può definirla tale: nessuna scappatoia.

L’arte creata con l’Intelligenza Artificiale, invece, è ancora arte? Mantenendo (per ora) la convinzione che il test di Turing non sia stato superato e che non esista un computer consapevole di pensare, l’IA genera immagini attraverso le nostre parole, i gesti e le espressioni, il contesto, la nostra attività intellettuale volta alla sua istruzione. Non può creare; può solo trasformare.
Essendo l’arte qualsiasi forma d’attività umana che sia esaltazione dell’invenzione e dell’espressività, l’arte creata con Intelligenza Artificiale è senz’altro arte, non potrebbe essere niente di diverso. Direi che ci siamo risposti.

E il diritto d’autore? Di chi è? Il «contenuto» (il testo, la foto, il video) generato da una IA o con ausilio di IA, secondo i termini e condizioni d’uso che accettiamo nel momento in cui l’utilizziamo, è proprietà intellettuale di chi ha scritto l’algoritmo dell’IA; per chi non lo sa, meglio rileggere ad esempio i contratti di licenza di Adobe Photoshop dal 2024 in poi.
La responsabilità di eventuali situazioni d’errore, pericolo o procurato allarme, danno d’immagine, plagio ricadono invece sull’editore e in cascata sul fotografo che ha ad esempio pubblicato un contenuto da qualche parte, ad esempio su un Social Network (sul solo fotografo se un editore non c’è); come possiamo ben intuire, è una zona nuova, tuttora molto grigia, attualmente fuori controllo e nessuno ha capito ancora bene che cosa sta succedendo in questo mondo, tantomeno ha potuto il legislatore analizzarlo e normarlo; ciò che è certo è che se c’è di mezzo un danno a una persona fisica, la responsabilità non può che ricadere esclusivamente su un’altra persona fisica (esistono progetti di legge che prevedono di dare all’IA personalità giuridica); anche il diritto d’autore può essere esclusivamente attribuito a una persona fisica, anche dietro pseudonimo; non può mai essere dato a una macchina o a un algoritmo. Quindi ci si contraddice «un poco»: proprietà intellettuale a chi ha scritto il software, e diritto d’autore a chi? Il diritto d’autore resta al fotografo ovvero alla persona che ha creato l’immagine utilizzando l’IA? Ad oggi la risposta è: non si sa.

Che cosa accadrebbe se ci convincessimo che in fondo in fondo val la pena di metter la macchina, anche la Reflex digitale, nel cassetto, per sedersi semplicemente vicino alla finestra diteggiando sullo schermo di una Mirrorless o dettando al nostro Smartphone parole chiave e descrizioni scelte in modo da generare proprio l’immagine che potremo poi ammirare sul nuovo LCD, calibrato coi colori del modello più simile a quello naturale, anzi già che ci siamo con in più qualche colore che in natura non esiste (ma che risulta tanto bello)?
Che cosa accadrebbe se non ricordassimo che la nostra foto un po’ sbiadita, fino a poco prima «la» foto, che conteneva quel tanto di errori, omissioni, opinioni, pellicole scassate, scelte fatte da noi nell’attimo finale della composizione – e che era unica – rischia di divenare una ripetizione di «scelte migliori», di «metodi unici» e di «informazioni scartate dal computer» in quanto da esso ritenute «meno importanti»?
La nostra foto diventerebbe una foto perfetta. Che Roland definiva: «Una foto qualsiasi». Mio caro Punctum, addio. Adesso, con Photoshop che ha anche l’IA, Dio c’è.

«Tutti i dati raccolti erano arrivati a una fine definitiva. Non rimaneva più niente da raccogliere. Ma tutti i dati raccolti non erano stati ancora correlati e messi insieme in ogni possibile rapporto fra essi. Un intervallo di tempo senza tempo era stato impiegato per fare questo. E capitò che l’AC imparasse il modo in cui invertire la direzione dell’entropia. Ma adesso non c’era nessun uomo al quale AC potesse dare la risposta all’ultima domanda. Non aveva importanza. La risposta – per la sua dimostrazione – si sarebbe presa cura anche di questo. Per un altro intervallo senza tempo, AC pensò a quale fosse il modo migliore per farlo. Con molta attenzione AC organizzò il programma. La coscienza di AC inglobava tutto ciò che un tempo era stato un Universo, e rifletteva su quello che adesso era il Caos. Passo a passo, doveva venir fatto. E AC disse: ‘SIA LA LUCE!’ E la luce fu». [Isaac Asimov, «L’ultima domanda», 1956]

[r.s.]

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